La parabola di Twitter, da megafono delle proteste a voce del padrone

A marzo Twitter ha compiuto 10 anni. Il micro-blog di San Francisco venne sdoganato nel mainstream, prima di toccare l’apice della popolarità con le primarie repubblicane con l’elezione Trump, quando diventò il megafono delle Primavere Arabe. Allora una certa ideologia democratico-obamiana illuse le masse arabe di poter rovesciare, via Tweet e mediante oceaniche manifestazioni di piazza, gli autocratici e tirannici regimi, sotto il cui tacco asfissiavano da decenni. In realtà, solo in Tunisia si è insediata una fragile democrazia, mentre l’Egitto – invece di abbracciare il “modello turco” (la democrazia figlia di Mustafa Kemal Atatürk) -, dopo alterne vicende, sembra aver esportato in Turchia il modello di regime dittatoriale retto dall’Uomo Forte.

Trump è protagonista della campagna pubblicitaria di Twitter in Giappone
Trump è protagonista della campagna pubblicitaria di Twitter in Giappone

In pochi anni, Twitter, da “strumento per esportare la democrazia”, si è rivelato il più forte alleato per le ideologie più arretrate contrarie alla globalizzazione (sia dei mercati che dei diritti): ci ha regalato la Brexit, l’elezione di Trump e il fallimento definitivo delle Arab Springs, con l’involuzione della Turchia, sempre meno democratica e sempre più vicina a regimi autoritari.

Ovviamente, Internet è neutrale, non è di destra né di sinistra. Ma la parabola di Twitter, da megafono delle proteste a voce del padrone, è sotto ai nostri occhi, come il suo crollo in Borsa. Tutto ciò, poi, avviene, mentre Mister Facebook – al secolo, Mark Zuckerberg, Ceo e co-fondatore del numero uno dei social network, il grande rivale di Twitter, costruisce – pezzo a pezzo – la sua immagine di Anti Trump, forse in vista di una (per ora fantomatica, ma fra quattro anni chissà!) discesa in campo. La nemesi definitiva per Twitter?

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