I dazi di Trump sottovalutano la Cina digitale. Armi (spuntate) o boomerang?

I dazi del Presidente USA Donald Trump, giunti al secondo round, potrebbero rivelarsi come la notizia della morte di Mark Twain: grossolanamente esagerati. Ma nei confronti della Cina, forse, potrebbero trasformarsi da armi spuntate a veri e propri boomerang. In grado di rendere Pechino più forte e competitiva.

Solo mettendo al microscopio le aspirazioni egemoniche della Cina digitale, possiamo renderci conto di quello che sta avvenendo col ritorno del protezionismo sul mercato globale.

Partiamo dai numeri. La Cina vanta 802 milioni di utenti Internet, in rialzo del 3,8% nell’ultimo semestre, con utenti mobili che sono il triplo degli Stati Uniti. A trainare l’online cinese sono i servizi finanziari che, in appena sei mesi, si sono impennati di oltre il 4%, mentre l’e-commerce sfiora i 600 miliardi di dollari. Cifre, tratte dal 42/mo report semestrale del China Internet Network Information Center, che stanno facendo capitolare perfino Google, il motore di ricerca che anni fa chiuse le porte a Pechino, ma ora sarebbe disposto a sposare l’odiata censura online pur di rimettere piede in un impero in ascesa, dove Internet ha ancora praterie da conquistare, dal momento che oggi è disponibile nel 57,7% del Paese, ma nelle aree rurali ha superato appena il 26%.

Fra i dieci siti Web più visitati al mondo, quelli cinesi crescono.

Gli utenti nella fascia d’età compresa fra 30 e 39 anni è la più attiva sul Web: rappresenta il 39,9% del totale. Ma la Cina impressiona soprattutto nel Mobile: navigano in mobilità (su tablet e smartphone) ben 788 milioni di cinesi pari al 98,3% del totale.

In un semestre i servizi finanziari sono balzati dal 16,7% al 21%, attestandosi a 39,74 milioni. L’incremento rappresenta un boom del 30,9% rispetto a fine 2017. A fare la parte del leone sono e-commerce e pagamenti digitali, che contribuiscono al comparto per il 71%. Il commercio elettronico vale 600 miliardi di dollari, in salita del 30,1% in sei mesi.

Google, Youtube, Facebook e Twitter attualmente sono bloccati dal grande Firewall, la muraglia cinese digitale: ma i 135 siti censurati dal Golden Shield hanno tutto l’interesse di inchinarsi alla normativa cinese pur di entrare, prima o poi, in un mercato così appetibile. Le cinesi Tencent e Alibaba sono già fra le prime otto società a più elevata capitalizzazione di mercato.

Il mercato cinese è immenso: ergo, irrinunciabile, visto che la penetrazione di Internet è il 52%, c’è ancora spazio per crescere. Il rischio è che chi di dazi colpisce, di dazi perisce.

Un altro capitolo di estremo interesse, oltre alla Via della Seta, è quello africano. Infatti, non conosce sosta o rallentamenti l’espansione della Cina in Africa, dove Pechino ha di recente messo sul piatto investimenti per 60 miliardi di di dollari. Lo stanziamento ha dimensioni galattiche, può rappresentare un fattore d’instabilità (per l’FMI che lancia l’allarme della “trappola del debito”) e forse misura la febbre del neo-colonialismo di Xi Jinping, ma, trattandosi di una cifra talmente importante, rappresenta anche un’opportunità incredibile per lo sviluppo del Continente africano, la cui unica via di salvezza – secondo Bill Gates – consiste nella creazione di una classe media e di un’imprenditoria locale. L’iniziativa “One Belt, One Road”, ribattezzata nuova via della Seta, consiste nell’aprire una rotta commerciale (sia marina che stradale e ferroviaria), una serie d’infrastrutture che dalla Cina porta in Occidente, passando dall’Africa, per rendere più efficiente l’accesso di Pechino ai mercati e alle risorse estere, aumentando al contempo l’influenza cinese all’estero.

L’Africa svilupperà una dipendenza eccessiva dagli investimenti cinesi? Il debito pubblico estero africano esploderà, in un Continente in cui il 40% dei Paesi risulta a basso reddito? Oppure l’Africa riuscirà a sfruttare la Via della Seta come motore di sviluppo?

Rispondere a queste domande non è banale. Sappiamo che, secondo il China-Africa Research Initiative, la Cina, in sedici anni, ha prestato circa 125 miliardi di dollari al continente, per aggiudicarsi le terre rare, elementi chimici essenziale per realizzare gli smartphone (il tantalio del Malawi e il cobalto del Congo, senza dimenticare il litio usato nelle batterie anche per Pc e il niobio, protagonista nell’Automotive e la grafite, tanto cara all’americana Tesla). E qui veniamo a Huawei e Xiaomi, due campioni di razza del mercato smartphone globale: mentre Apple inaugurava il club dei trilionari, a inizio agosto la cinese Huawei superava Apple nelle vendite di smartphone (dati targati IDC, relativi al secondo trimestre del 2018) e il vendor di telefonini punta al sorpasso su Samsung, conquistando in futuro il primo posto del mercato smartphone. Anche la cinese Xiaomi è in grande spolvero: ha battuto Samsung in India; e in Italia, è schizzata al secondo posto, registrando una prepotente crescita del 200%.

Tornando all’Africa, gli investimenti di Pechino nel continente non si limitano alle terre rare, si diversificano: dalle infrastrutture dei trasporti all’agribusiness, dal militare fino alla fibra ottica (in corso di installazione in Burkina Faso).

Grazie anche all’export di prodotti tecnologici, dal 2025 il giro d’affari cinese in Africa potrebbe toccare quota 400 miliardi di dollari. La diplomazia dei dollari cinese non serve dunque solo ad accaparrarsi preziose materie prime, ma è volta anche a migliorare l’accesso cinese ai mercati.

In ambito startup, l’Africa potrebbe diventare la prossima fabbrica di Unicorni? Presto per dirlo, ma la Cina sta creando nel Continente una Shenzen da zero: si chiama Bagamoyo la piccola città con 35 mila abitanti che, affacciata sull’Oceano Indiano, vuole diventare una zona economica speciale per attrarre startup tecnologiche, industrie e turisti: operazione da 10 miliardi di dollari d’investimenti cinesi in dieci anni, per realizzare il porto del futuro.

L’Africa è a un bivio: deve decidere se agganciarsi allo sviluppo cinese, rischiando di perdere pezzi della propria sovranità, oppure se aspettare treni alternativi.

Tornando al tema da cui siamo partiti, il nuovo round di dazi di Trump, si abbattono sulla Cina con lo scopo di ostacolarne lo sviluppo, ma la Cina digitale è già proiettata nel futuro e in ambiti come Intelligenza Artificiale (AI), robotica, IoT, 5G e mobilità, tanto per citare tre mercati chiave, è già troppo avanti per poter essere fermata. Con gli investimenti in Africa, ha inoltre compiuto un balzo importante. E nell’Automotive, le vendite di auto elettriche in Cina fa intravedere nuovi orizzonti.

La domanda vera è se i dazi arrivino troppo tardi, e siano armi già spuntate, e se addirittura possano obbligare la Cina ad accelerare e a rafforzarsi, trasformandosi in autentici boomerang. Ai posteri l’ardua sentenza… Ma oggi già sappiamo che, dazi o no, la Cina spende il 2.1% del PIL in R&D (Ricerca e Sviluppo) e che è in pole per diventare una superpotenza nel campo dell’intelligenza artificiale entro il 2030: il motore di ricerca Baidu e il sito di e-commerce Alibaba, grazie anche alle loro sedi in Silicon Valley, ma soprattutto grazie al volano del suo enorme mercato interno.

L’interesse nell’AI è di natura socio-politica: è una tecnologia che, unita alle videocamere, consente un sistema di cyber-sorveglianza da Grande Fratello orwelliano. Se il volume di affari delle società IT cinesi è poco meno di un terzo di quello delle società hi-tech americane (dato del Politecnico di Zurigo), esso ha il potenziale di crescere grazie a un mercato interno di 1,5 miliardi di cinesi, di cui 800 milioni già online oggi (e di questi, quasi tutti utenti mobili già oggi). Su IMBD, in Cina, il film con più stellette è Dying to Survive: un titolo che dimostra che la Cina, più è sott’attacco, più sviluppa resilienza e riesce a ribaltare le sorti di un conflitto. E la Cina si sta costruendo anche l’immagine di un Paese che crede nel libero mercato (contro il protezionismo di Trump) e che scommette nelle energie rinnovabili (a favore degli accordi di Parigi, disattesi da Trump), il cui consumo è passato da 2.5 milioni di tonnellate di petrolio equivalenti nel 2006 a 86.1 milioni nel 2016, superando gli USA in quell’anno.

La Cina ha già vinto una grande storica battaglia, quella della povertà estrema: contava 756 milioni di poveri nel 1990, grazie al libero mercato sono scesi a 25 milioni. Del resto, il PIL cinese era il 2% del PIL mondiale nel 1980 (contro il 30% dell’Europa), è balzato al 18,7% nel 2017 (contro il 16,3% europeo). Nessuna guerra – compresa quella dei dazi – può far tremare Pechino.

 

UPDATE 20/9/2018: Alibaba ha cancellato la promessa, fatta a Trump, prima dell’avvio della guerra dei dazi, di creare un milione di posti di lavoro negli USA. Segno che nessuno ha il coltello dalla parte del manico, ma la Cina ha tante frecce al suo arco: Alibaba, che volta le spalle al Presidente USA, è segno dei tempi.

@CastigliMirella

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