TAVOLA ROTONDA sulla Didattica a Distanza: a che punto è la Formazione Digitale?

Su Scenari Digitali si è svolta la Tavola Rotonda (rigorosamente virtuale) sul tema dell’anno: la Didattica a Distanza (DAD). Obiettivo: fare il punto sulla Scuola Digitale (e sulla formazione a distanza in Università ed Accademie) dopo la brusca irruzione della Didattica a Distanza nel 2020 con l’inizio dell’epidemia da Coronavirus e della quarantena che ha costretto insegnanti e studenti a seguire le lezioni da casa, sia in modalità sincrona (streaming) che in modalità asincrona (le classi virtuali). Abbiamo posto cinque domande a: un docente universitario (che insegna Matematica in diverse Università milanesi, compreso il Politecnico di Milano), due docenti dell’Accademia di Belle Arti (di Bologna e Catanzaro), il tecnologo ricercatore dell’Indire (che coordina il team che si occupa del progetto “Maker@Scuola”) e un formatore (laboratori di pedagogia hacker, corsi sulla privacy, data journalism) esperto di software Open source. Le BIO degli intervistati sono consultabili in fondo al post.

Prima di pubblicare la Tavola Rotonda, Scenari Digitali vuole fare una proposta per risolvere il problema spinoso del rientro a scuola a settembre.

I problemi sono due: le classi-pollaio, in attesa di sfruttare altri spazi, aprendosi anche al territorio (troppi studenti in aula, impossibilitati a rispettare le distanze fisiche e sociali in epoca di pandemia); i mezzi di trasporto, con la capienza ridotta di un quarto.

Non è stata apprezzata né dai docenti né dagli studenti l’idea di alternare l’ingresso delle classi: mezza scolaresca in aula e mezza collegata con la didattica a distanza, con i due gruppi che si alternano nel corso della settimana.

Mio figlio Jacopo Bisenzi, studente del Liceo Scientifico, ha avuto un’idea: gli orari scaglionati, a costo zero per il Ministero dell’Istruzione e senza chiedere eccessivi sacrifici e senza aumentare l’orario complessivo agli insegnanti italiani.

Oggi nella scuola tradizionale, in presenza, quasi 20/30 minuti vengono “persi” nel fare l’appello e nel controllare che tutti abbiano portato i compiti.

Ecco l’uovo di Colombo: eliminare l’appello (inutile, dal momento che gli studenti entrano a scuola col badge e le assenze vengono segnate in automatico sul registro elettronico) e invitare gli studenti a consegnare i compiti su Google Classroom (o programma equivalente) entro le 8.00 del mattino: i professori controlleranno online, successivamente, chi non ha svolto i compiti a casa.

In questa maniera, finché durerà la pandemia, l’ora di lezione potrebbe dimezzarsi. E, quindi, mezza classe potrebbe entrare fra le 8.00 e le 10.30/11.00 (senza intervalli), svolgendo il suo nuovo orario scolastisco al tempo del Covid-19, ma completando le 5 lezioni quotidiane; l’altra metà potrebbe entrare fra le 10.30/11.00 (in modo da non incrociare l’uscita della prima metà degli studenti in uscita, grazie a rigorosi percorsi d’ingresso ed uscita, segnalati da frecce orizzontali), in modo da svolgere lezioni da mezz’ora ciascuna fino alle 14.00.

In questa modalità, con gli orari scaglionati, i ragazzi non intaserebbero i mezzi pubblici nell’ora di punta. I docenti non dovrebbero aumentare il monte ore settimanali, si potrebbe riconoscere ai docenti un premio produttività per il lavoro in modalità DaD.

Agli insegnanti rimane il controllo dei compiti, in modalità a distanza: ma basterebbe verificare che tutti hanno consegnato i compiti assegnati.

In modalità Didattica a distanza potrebbero rimane video-lezioni, correzione dei compiti e test, per verificare che gli studenti stanno seguendo al meglio. Ma i compiti in classe verrebbero svolti in presenza e così le interrogazioni.

TAVOLA ROTONDA virtuale con docenti universitari ed Accademie, esperti e formatori sulla Didattica a Distanza (DAD) per fare il punto sulla scuola digitale
TAVOLA ROTONDA virtuale con docenti universitari ed Accademie, esperti e formatori sulla Didattica a Distanza (DAD) per fare il punto sulla scuola digitale

 

Scenari Digitali: La scuola digitale era ferma al registro elettronico e alla Lim. Sembrava la scuola del libro Cuore schiaffata su un display: come un quadro digitalizzato, niente di nuovo. Ma il Coronavirus ci ha costretti a reinventare la didattica a distanza (Dad), sfruttando piattaforme (open source o proprietarie), ma soprattutto a re-immaginare il concetto di formazione. A re-ingegnerizzare i processi. Perché la trasformazione digitale è un fatto culturale, prima che IT. Prima di addentrarci nel dettaglio nelle tecnologie che usate, cosa vi siete inventati per tenere incollati i vostri studenti al Pc? Qual è il vostro trucco per aumentare l’engagement, il coinvolgimento degli studenti?

Marco Boella: Il Politecnico di Milano ha di fatto imbastito un’organizzazione teutonica: ogni singolo corso ha la sua aula virtuale su MsTeams (Microsoft Teams, n.d.r.), e al di là di qualche piccolo impasse direi che la scommessa è stata vinta. I ragazzi si sono dimostrati molto responsabili nell’uso della tecnologia: l’interazione funziona a meraviglia. Certo, sono bastate poche ore di lezioni per accorgersi di quanto sia importante, e adesso manchi, il contatto diretto, visivo, con il gruppo intero: la mancanza di quel feedback continuo dei volti dei ragazzi rende più difficile rendersi conto se occorra soffermarsi di più su qualche passaggio, e magari tagliar via altrove; in questo caso si fa tesoro dell’esperienza pregressa. D’altro canto, senz’altro anche loro soffrono della nostra mancata presenza: una lezione, se ben organizzata, rientra nell’ambito dello “show business”, le tecniche (e intendo fisicità: corpo, gesti, voce…) che alcuni di noi usano per tenere desta l’attenzione sono ovviamente ridotte al lumicino, quasi solo la voce. Purtroppo altri escamotage per tenere desta l’attenzione non ne ho trovati.. l’unica considerazione è che, se in aula avrei avuto di fronte 180-200 persone, una parte delle quali poco interessata, adesso a collegarsi sono solo 120, e forse l’interesse è selezionato “a priori”.

 

Lorenzo Guasti: Da ricercatore INDIRE ho una visione “dall’alto” e da genitore (e rappresentante di classe) una visione dal basso. Lo Tsunami della chiusura delle scuole è stato forse l’aspetto più devastante di tutta la vicenda lockdown. Una cosa epocale che ha costretto la più grande azienda italiana in termini di dipendenti a reinventarsi completamente e velocemente. I feriti e i caduti sul terreno di battaglia in questa repentina rivoluzione sono stati molti. Tutte le scuole che non erano organizzate prima dell’emergenza, si sono trovate in grossissime difficoltà e sono corse ai ripari attrezzandosi nel modo che hanno ritenuto più opportuno. Purtroppo in maniera molto eterogenea: non c’è una piattaforma ministeriale o un contratto quadro con una azienda per usufruire degli stessi servizi sul tutto il territorio nazionale. Quindi capita spesso che una famiglia si trovi due o tre figli che facciano DAD con sistemi diversi magari concomitanti sull’unico computer di casa.
Dei centinaia di webinar che ho gestito e seguito posso sintetizzare l’essenziale in questo: chi ha privilegiato la presenza, l’empatia, l’essere vicino agli studenti, anche a scapito di qualche lezione e qualche compito, alla lunga ha vinto. É il rapporto emotivo con gli studenti quello che è stato messo in crisi maggiormente e quindi l’aspetto su cui si avrebbe dovuto investire maggiormente. Ma questo è successo solo per una minoranza degli insegnanti.

 

Maurizio Lucchini: Io mi occupo da anni di informatica, più precisamente di sicurezza informatica e insegno discipline legate all’informatica, alla programmazione e alle nuove tecnologie digitali, in varie istituzioni (Accademie di Belle Arti e Università). In particolare all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro sono Preside del dipartimento di Arti Applicate e coordinatore, oltre che docente, del primo corso di laurea, in Italia, in Computer Games, erogato da una ABA. Allo stesso tempo, come attività accessoria insegno e formo istruttori in attività specialistica di immersione subacquea che impiega nuovissime tecnologie estremamente specialistiche per varie agenzie di formazione internazionali.
Ho aggiunto questo, perché, limitatamente a questa domanda, vorrei integrare alla mia esperienza come docente in corsi in istituzioni di livello universitario, quella di formatore in corsi per attività sportive che fanno intenso uso di attrezzatura tecnologica e dispositivi di supporto vitale e che richiedono una formazione standardizzata e molto rigida.
In entrambi gli ambiti il coronavirus ha permesso di fare sperimentazione, superando i preconcetti, prettamente italiani, relativi all’e-learning e alla docenza a distanza.
Nel campo dell’insegnamento sportivo, migliaia di istruttori in Italia, hanno avuto la possibilità di, o meglio sono stati gioco forza costretti a, familiarizzare con semplici sistemi o piattaforme per l’erogazione dei corsi a distanza. E il feedback è stato più che positivo, entusiasta!
Quindi i corsi in modalità e-learning, disponibili da anni per queste discipline sportive ma decisamente ignorati, sono tornati in vita e stanno avendo un grande successo.
In questo contesto parliamo di formatori da sempre poco interessati alla dad, anzi decisamente ostili ad essa.
Non solo, scoprendo queste modalità di comunicazione digitale, sono, spontaneamente, nati un numero imprecisato di workshop, seminari, con cadenza quasi giornaliera, cosa che fino a poco tempo fa non accadeva, seminari, simposi erano relegati a pochi appuntamenti durante l’anno. Lo stesso sto riscontrando all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, dove seminari, tavole rotonde, incontri, sono all’ordine del giorno con ospiti da tutta Italia e anche stranieri.
Fatta questa premessa, forse per molti poco interessante, ma per me cartina al tornasole delle potenzialità dirompenti che ha la somministrazione di lezioni in modalità online, passo a parlare dell’esperienza nel campo dell’alta formazione.
Negli ambienti in cui insegno ci sono due tipologie di docenti (e studenti), quelli che insegnano materie legate alle nuove tecnologie e quelli che insegnano materie di tipo più “tradizionale” o umanistico.
Mentre i primi da tempo sollecitano l’integrazione di questo tipo di didattica (autoapprendimento, dad) alla normale offerta formativa, gli altri hanno spesso mostrato una ostilità innata verso tutto ciò che non è “in presenza” e che ha a che fare con le nuove tecnologie.
Il coronavirus ha permesso, forse costretto, tutti a confrontarsi con nuove modalità di insegnamento. E, anche qui, il risultato è stato inaspettato e sorprendente, ma di questo ve ne parlo dopo.
Arrivando alla domanda, le materie che io insegno ben si prestano a questa nuova modalità docenza, quindi trucchi non ce ne sono, ma essendo io il referente per lo sviluppo di soluzioni per la didattica a distanza, mi sono dovuto confrontare con le necessità di quei professori che insegnano materie di tipo laboratoriale non-digitale.
Alcuni docenti sono stati in grado autonomamente di trovare soluzioni, a volte davvero sorprendenti, per svolgere i laboratori a distanza.
La fantasia, l’immaginazione, la creatività riesce ad andare oltre i limiti imposti dalla tecnologia, così, docenti di pittura, di scultura, di decorazione riescono a trovare soluzioni interessanti per far lavorare gli studenti da casa nella maniera più indolore.
Ma questo potrebbe anche non risultare sufficiente, abbiamo quindi pensato di espandere la didattica a distanza verso nuovi e inesplorati territori, ambienti con cui lavoro da anni, ma inesplorati per applicazioni didattiche.
Per questa ragione al Dipartimento di Nuove Tecnologie stiamo lavorando ad una nuova piattaforma, o meglio, una piattaforma e un insieme di strumenti, che si andrà ad integrare con le altre già presenti e con gli strumenti didattici digital open source già in uso.
Questa piattaforma cercherà di sfruttare interamente quello che Paul Milgram definisce come il Reality –Virtuality Continuum.
Lo strumento principale sul quale stiamo lavorando è la creazione di Ambienti in Realtà Virtuale dove fare scultura, pittura e decorazione VR, dove “toccare” realmente con mano le cose, in un ambiente immersivo, confortevole, dove le distanze reali , affiancati anche da altre soluzioni che vedono coinvolte Realtà e Virtualità Aumentata.
Questa per me è una sfida e una strada che voglio percorrere. Già i miei studenti del corso di Sistemi Interattivi, rinchiusi in casa per la quarantena, nell’attesa di attrezzature di più alto livello, più performanti e più immersive, si sono autocostruiti dei visori VR durante un progetto di laboratorio. In questo caso la filosofia del DIY è stata vincente, non abbiamo solo studiato e parlato di Realtà Virtuale, non abbiamo solo creato contenuti, ma abbiamo costruito gli strumenti per poter iniziare a lavorare.

 

Enrico Bisenzi: Pongo agli studenti molte domande anche durante le video-lezioni, sottopongo quesiti, cerco di far emergere il loro ‘punto di vista’ rispetto alle tematiche proposte ed assegno loro diversi compiti da svolgere in autonomia. Inoltre cerco di sdrammatizzare anche con l’utilizzo di un avatar-assistente che ha suscitato molta curiosità, nei momenti di pausa, attesa e fine lezione nonché durante le esercitazioni metto come sottofondo musicale una trasmissione live di musica classica ‘La fuga del Gatto’ che sembra essere molto gradita.

Scenari Digitali: Parliamo di piattaforme e cloud. A quali software vi siete affidati? Sono open source e free software oppure programmi proprietari? Quali fattori hanno influito sulla scelta?

Maurizio Lucchini: All’ABA di Catanzaro, precorrendo i tempi, non appena abbiamo avuto sentore dell’intenzione, da parte del governo, di chiudere le scuole, abbiamo pensato come poter gestire una emergenza di questo tipo, che si sarebbe potuta presentare nell’arco di qualche ora o giorno.
É così che mi sono trovato a escogitare delle soluzioni tecniche e tecnologiche che potessero andare bene per tutti, che fossero immediatamente disponibili, che non avessero necessità dei tempi burocratici, solitamente molto lunghi, che le istituzioni pubbliche hanno, che fosse scalabile, replicabile, e soprattutto semplice da usare.
C’era da avere a che fare con docenti che non avevano mai preso in mano un computer, o quasi, e avremmo dovuto formarli in pochi giorni all’uso di questa piattaforma.
C’era da considerare che alcune nostre discipline sono laboratoriali e fortemente legate alla fisicità e alla materialità.
C’era anche da tenere in conto che alcuni (leggi: molti) studenti potevano non avere un computer ma solo uno smartphone, e che quindi la piattaforma doveva essere dispositivo-indipendente.
Insomma, le cose da considerare erano tante e in molti momenti le decisioni che mi trovavo a prendere mal si conciliavano con la mia visione personale della piattaforma.
E qui arriviamo al software usato: la nostra decisione non è stata per nulla semplice. Molte scuole, accademie, università, hanno scelto più o meno a caso, cosa usare. Nel senso che quello strumento si ritrovavano in casa e quello hanno usato. Quindi Microsoft Teams, Google Meet, etc.
La nostra invece è stata una decisione presa dopo una lunga serie di ragionamenti e, posso dire, sotto alcuni aspetti una scelta sofferta.
La piattaforma principale si basa sull’abbinamento di Google Meet / Classroom / Jamboard. Quindi una soluzione standardizzata, chiusa, commerciale.
Ma è solo la piattaforma principale, non l’unica. La suite Google è gratuita per le scuole pubbliche, ce l’avevamo da una parte a prendere polvere da qualche anno, quindi abbiamo potuto avviarla senza dover passare per consigli di amministrazione per le autorizzazioni, senza dover fare bandi per l’affidamento dello sviluppo della piattaforma o anche solo della messa in opera del server o di un servizio per farla funzionare.
Ci fosse stato più tempo, ricordo che dalla comunicazione della chiusura delle scuole alla partenza della nostra sperimentazione sono passati solo una manciata di giorni, la soluzione open source basata sul sistema ADA sarebbe stata quella migliore e la possibilità di dimostrare la potenza delle soluzioni Open Source.
Dicevo che la piattaforma Google, sicuramente molto facile da usare, con tutta una serie di criticità dovute non tanto, o non solo, ad alcune limitazioni del software, ma soprattutto a come queste piattaforme intendono la didattica, che non combacia molto con il mio e, fortunatamente, con quello dei miei colleghi.
Su questo aspetto consiglio l’ascolto di una trasmissione del mio amico e collega Maurizio Mazzoneschi.

A fianco della piattaforma Google, abbiamo collegato dei programmi che si interfacciano o complementano con essa e che offrono funzionalità mancanti. Queste soluzioni, sviluppate ad hoc e Open Source. Strumenti essenziali che permettono differenti modalità di visualizzazione dei contenuti, sistemi di interfacciamento con la piattaforma con i registri digitali (anch’essi realizzati appositamente, os, e con licenza Creative Commons), così come gli strumenti legati agli esami di profitto, alle tesi di laurea e al sistema di validazione e verbalizzazione. Lo stesso vale per sistemi che affiancano la didattica per la comunicazione e il lavoro collaborativo “offline”.
Oltre a queste cose, come ho detto prima, stiamo lavorando su soluzioni altre, che hanno a che vedere con la Mixed Reality, per le quali vorremmo utilizzare soluzioni open e i progetti da noi realizzati, rilasciarsi con licenze Creative Commons.

Lorenzo Guasti: Non sono un talebano dell’open source. Prima di tutto guardo all’efficienza. Se parliamo di videoconferenza, streaming e cloud, i BIG (Google, Microsoft, Apple, Cisco etc) hanno reagito meglio e più in fretta fornendo piattaforme solide e scalabili. Detto questo, tutto quello che può essere fatto con strumenti open, come EdModo, Moodle, etc ben venga, ci si guadagna in trasparenza, apertura e versatilità. Però attenti agli astri nascenti, tra una piattaforma Zoom con una gestione della privacy dubbia e Microsoft Teams certificato GDPR compliance si devono fare le giuste considerazioni. Non è sempre detto che le multinazionali siano il lato peggiore della rete.

Enrico Bisenzi: Quando ho potuto scegliere in autonomia nel passato ho privilegiato sempre piattaforme open source e free software (come la soluzione Made in Italy ADA) perché sono convinto che la gestione in autonomia dei dati, backup, tracciatura ed interfaccia operativa sia un fattore molto importante. L’esperienza più recente presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna mi ha visto coinvolto nell’implementazione di Google Meet e Google Classroom che ho trovato molto semplici e comode da utilizzare.

Marco Boella: Come dicevo (vedi risposta alla domanda numero 1, più sotto, ndr), il Politecnico di Milano ha decretato per tutti l’uso di Microsoft Teams, non ci sono state alternative. Vediamo adesso cosa si farà (sempre, la decisione sarà centralizzata) per quanto riguarda lo svolgimento degli esami.

Scenari Digitali: La didattica a distanza (Dad) potrebbe avere un ruolo importante per combattere fenomeni quali abbandono scolastico e NEET (i giovani che né studiano né cercano un lavoro), una vera piaga in Italia. Pensate che sia possibile?

 

Lorenzo Guasti: La didattica a distanza è uno strumento potentissimo e come tale può fare molto bene e molto male. Dove c’è abbandono scolastico e NEET spesso c’è anche povertà, digital divide e scarsa cultura digitale. Questo purtroppo sono gli ambiti dove la DAD penetra meno per ovvi problemi strutturali. Quindi mi viene da rispondere che probabilmente l’abbandono e il fenomeno NEET si combatte in modo integrato o come dicono gli anglosassoni “blended” dove alla didattica tradizionale, magari laboratoriale e coinvolgente, si associa un programma di lezioni a distanza.

Maurizio Lucchini: Sì, indubbiamente, per esempio all’ABA di Catanzaro, dove insegno , impiego meno tempo io a raggiungere la sede, da Pisa dove, dopo un ora di volo, arrivo a destinazione, rispetto alla media degli studenti. Alcuni studenti pendolari impiegano, ogni giorno, più di tre ore a tratta per poter studiare.
Decisamente queste forme di didattica a distanza potrebbero aiutare, ma per farlo devono funzionare nella loro interezza, perché didattica a distanza non è, e non deve essere la semplice lezione in videoconferenza, non è e non deve essere il semplice upload di documenti e quiz.
La DaD deve essere qualcosa di molto più complesso, articolato, che permetta il lavoro collaborativo, che permetta l’interazione e la socializzazione, e tante altre cose che esulano dallo scopo di questa domanda.
Ovviamente la didattica online è solo uno dei tasselli necessari a combattere questi fenomeni, per il NEET, secondo me ci sono altre soluzioni, complementari, non tanto finalizzate all’iscrizione a scuole ma per prima cosa nel creare interesse verso l’apprendimento e la cultura in genere. Te ne parlerò dopo metà maggio, perché sono oggetto di una tesi di laurea di una mia studentessa.
Non vorrei anticipare nulla prima del tempo e quindi danneggiare il suo interessantissimo lavoro.

Maurizio Mazzoneschi: Non è facile rispondere a questa domanda.
Credo che in alcuni casi la DaD possa essere un valido supporto alla didattica in presenza, altre volte può supplire a impossibilità fisiche degli studenti (viaggi, allontanamenti per cause di forza maggiore, attività collaterali, etc.). Non so dirti se può avere un ruolo importante contro l’abbandono scolastico, certamente in questi giorni abbiamo assistito a reazioni differenti tra gli studenti. C’è chi addirittura ha dichiarato di preferire la didattica a distanza: per lo più sono studenti che con fatica andavano a scuola e che non hanno stretto negli anni relazioni comunitarie con gli altri studenti. Per cui forse sì, può essere un valido aiuto, ma sinceramente non sono in grado di affermarlo con certezza.
Posso però indicarti Davide Fant, un educatore che lavora quotidianamente con adolescenti a rischio dispersione, e che sta pubblicando un diario [capitolo 1, capitolo 2, capitolo 3] dell’andamento del lavoro “a distanza” con i ragazzi.

 

Marco Boella: Non so, ma così mi verrebbe da dire di no: per la mia esperienza, già nel gruppo degli studenti regolarmente iscritti al corso, che quindi sono ben lungi dall’essere NEET, vi è una frazione non indifferente che non si collega più.. che la didattica a distanza possa addirittura “attirare” risorse altrimenti perdute mi sembra difficile, anche se magari a fare la differenza potrebbe essere l’argomento delle lezioni.

 

Enrico Bisenzi: Penso che le video-lezioni e le classi virtuali siano buone opportunità da sfruttare per contrastare l’abbandono scolastico: agli studenti/giovani perlopiù piace molto la didattica a distanza per cui potrebbe essere un buon tentativo di coinvolgimento di quei soggetti che magari sono intolleranti verso i sistemi tradizionali di insegnamento; bisogna poi tenere di conto che alcune problematiche di abbandono scolastico legate a questione di ‘distanziamento sociale’ e disuguaglianze potrebbero essere ovviamente risolte (in parte) con strumenti telematici di formazione e comunicazione a distanza. Dove c’è disagio, infine, sarebbe molto interessante scendere su un piano narrativo di coming out individuale e collettivo per meglio comprendere e risolvere fenomeni di disagio sociale

[Quarta domanda] Scenari Digitali: Al Sud la quota delle famiglie senza computer/tablet (fonte: Istat 2019) è oltre il 40%. Anche chi ha il Pc non è detto che abbia un abbonamento alla banda larga fissa. Al Nord le aziende stanno donando vecchi notebook ancora efficienti per i ragazzi in Digital Divide e il ministero per l’innovazione ha messo a disposizione un elenco di operatori per avere Giga in più. Di recente il Presidente del Consiglio ha auspicato che il diritto a Internet entri in Costituzione: era il sogno di Rodotà. Credete sia la strada giusta per combattere il divario digitale è le tecno-disuguaglianze in Italia?

Maurizio Lucchini: Al sud la quota delle famiglie senza pc è più del 40%? Non ne ho idea, non ho dati statistici alla mano. Insegno in posti diversi d’Italia (nord- centro ed estremo sud) e, mi sembra che, almeno limitatamente agli studenti con cui ho a che fare, le cose non siano così.
Certo il digital divide esiste, nessuno lo nasconde, esiste pure nei paesini al nord. In Calabria tutti (con tutti intendo gli studenti, i docenti) hanno connessioni ad internet, magari connessioni dati cellulare, ma non, o non solo per problemi di raggiungimento delle connessioni a banda larga, ma per scelta. All’interno della nostra stessa istituzione abbiamo sì problemi di connettività (anche se abbiamo una rete con connessione a banda larga) ma molti meno rispetto a quelli di altre blasonate istituzioni statali del nord in cui ho insegnato.
Quasi tutti gli studenti hanno un pc, a volte più di uno a casa. Il problema è che non tutti usano il computer, questo è un problema generalizzato, le nuove generazioni, e anche quelle non più nuove, fanno un uso prevalente di smartphone, quindi mi trovo studenti che hanno il pc ma non lo usano, che scrivono codice dallo smartphone, che editano foto e video da smartphone, con tutti i limiti che questo comporta, il problema è che spesso tendono ad accontentasi senza volere o pretendere di più.

L’Internet di cittadinanza è stata anche la mia proposta nel lontano 1997 ad un convegno sulle reti in cui ha partecipato anche il collega Bisenzi, a Pisa, per cui non posso che essere d’accordo 🙂

Lorenzo Guasti: Se Internet fosse considerato al pari di acqua, elettricità e gas un bene primario di sussistenza sarebbe sicuramente un passo avanti. Questa emergenza ha reso visibile il problema. In ogni classe di qualsiasi comune italiano c’è almeno il 10% di bambini sconnessi o connessi solo tramite il cellulare del genitore. Questo crea un concreto e terribile digital divide e cutural divide perché vuol dire fare una scuola (a distanza) solo per i ricchi e i tecnologici. Non si può parlare di DAD senza prima aver creato un substrato tecnologico sufficientemente evoluto. Si rischia di fare dei danni enormi creando sacche di ignoranza invisibili ma molto estese.

Enrico Bisenzi: Posso dire che lo smartphone con possibilità di connessione a internet lo vedo a disposizione di tanti cosiddetti emarginati (anche migranti e senza casa) ma è vero che esiste un DIGITAL DIVIDE… eccome se esiste… ma non è solo in termini di mancata disponibilità hardware ma anche di mancate conoscenze di base per un uso consapevole della comunicazione digitale.

Maurizio Mazzoneschi: La questione del Digital Divide è più complessa di come normalmente si intende. Non si tratta solo di disuguaglianze derivate dalla mancanza di connettività o di device, c’è anche un problema di competenze (o per meglio dire di alfabetizzazione informatica).

Partiamo dal problema strutturale. Non tutti hanno un computer disponibile a casa, soprattutto in questi tempi in cui la famiglia è tutta a casa. Fuori dalle mura delle grandi città non c’è una connessione che consenta di poter partecipare alla didattica. Le scuole che dispongono di una banda sufficiente sono intorno al 10% del totale. C’è poi una questione legata al modello di informatica e di rete che si è voluto incentivare: la vera e propria ideologia del mobile first (prima per i dispositivi mobili) ha portato con sé due conseguenze importanti. La prima è che si è privilegiata la connettività mobile (4g, 5g) invece che cablare il territorio nazionale, con il risultato che la connettività è altalenante, poco stabile, in mano alle imprese private e probabilmente nociva per la salute a causa delle fortissime e soprattutto pervasive emissioni elettromagnetiche. La seconda, alimentata anche dalla demagogia dei nativi digitali, è che si è voluto far credere che con uno smartphone o con un tablet fosse possibile fare qualsiasi attività che riguardasse il digitale, mentre in questi giorni viene mostrata in maniera chiara tutta la falsità di tale convinzione: non è possibile fare didattica a distanza in maniera seria con uno smartphone o un tablet. Schermi troppo piccoli, mancanza di tastiera e così via.

Il tema delle competenze o alfabetizzazione informatica. La nostra classe docente è carente di molte delle competenze necessarie all’uso delle tecnologie per uno scopo didattico, è vero. Nessuno si è mai preoccupato di fare formazione in maniera massiva, e anzi ci hanno fatto credere che si trattasse di un problema generazionale, come se l’attuale classe docente non avesse le carte in regola per fare il passaggio al digitale, quando sappiamo bene che con una formazione adeguata e un impegno dedicato e motivato chi è nato nel secolo scorso può benissimo sviluppare le competenze e le abilità necessarie per lavorare bene sulle piattaforme online. Ci hanno fatto credere che quando gli attuali nativi digitali sarebbero diventati grandi, e quindi insegnanti, non ci sarebbe stata più una carenza di competenze. E invece, anche in questo caso, stiamo scoprendo che non è vero! I nativi digitali sono abili a “maneggiare” gli smartphone, ma non sanno come funziona la rete. Confondono browser con motore di ricerca, ed entrambi per loro coincidono semplicemente con Google. Non conoscono il funzionamento del web e confondono una URL con una stringa di ricerca.

Ben vengano le iniziative istituzionali che hanno l’obbiettivo di ridurre il divario digitale, ma temo che se non si affronta la questione del modello di uso delle tecnologie digitali, le disuguaglianze non diminuiranno. Anzi, tendenzialmente aumenteranno.

Marco Boella: La differenza è eclatante, certo dal mio punto di vista vedo solo la sommità della montagna (darei per scontato che uno studente di ingegneria, indipendentemente dal luogo di residenza, sia fornito della tecnologia necessaria), non so cosa accade in altri segmenti, se non per sentito dire; penso che il digital divide possa anche avere un legame con il fenomeno dei NEET, nel senso che l’assenza di stimoli potrebbe ulteriormente abbattere indoli già poco disposte a mettersi in gioco. Sicuramente abbattere le differenze nella possibilità di accesso alla rete è una priorità di uno Stato che voglia garantire a tutti i suoi cittadini uguali diritti.

Scenari Digitali: Didattica a distanza, servono criteri uniformi per valutare le attività degli studenti. Cosa proponete per orientare i docenti sulla valutazione?

Maurizio Lucchini: Per la “valutazione” degli allievi non credo sia necessario né utile un criterio standardizzato.
Già con la didattica in presenza ogni docente ha le sue modalità di insegnamento e stabilisce i criteri di valutazione.
Nella mia esperienza posso dire che sto applicando le stesse modalità di valutazione che uso in presenza, sia durante il corso che durante gli esami. La didattica a distanza offre sicuramente anche altri sistemi, complementari, per la valutazione studente, ma soggetti comunque alla discrezionalità del docente.
Se invece con “criteri di valutazione” si intende la modalità per rendere legalmente valida la valutazione (qui parlo di esami e di tesi), la cosa si fa per me più interessante. Mentre per la realizzazione della didattica online, siamo stati tra i primissimi, in Italia, a renderla operativa, sugli esami a distanza abbiamo avuto necessità di tempo per capire come muoverci. Alcune Università già sbandieravano ai quattro venti lo svolgimento di esami e di tesi di laurea, in realtà molto meno di quante sembrassero a prima vista, ma analizzando le modalità di svolgimento si poteva notare delle grosse falle nell’organizzazione degli stessi, che avrebbero potuto portare a ricorsi o annullamenti degli stessi.
Si racconta di esami dove lo studente, in realtà abbastanza impreparato, sia riuscito a prendere 30, per poi scoprire, a posteriori, che la parte dietro al monitor del PC era tappezzata di fogli e post it con riassunti, suggerimenti e altro.
Stesso problema si poteva avere con l’utilizzo degli auricolari o di cuffie durante la sessione.
Per questo abbiamo studiato bene il problema e siamo riusciti a creare un protocollo per l’esame (che applicheremo anche alle tesi), teoricamente inattaccabile e ineccepibile. Questo include le modalità di connessione da parte degli studenti, l’organizzazione della commissione nell’aula virtuale, le operazioni pre-esame di verifica dell’ambiente, i verbali digitali collegati all’aula virtuale, una seconda verbalizzazione video di tutta la seduta.
Questo è ovviamente un veloce, non esaustivo, riassunto delle procedure codificate e messe in pratica nella sessione di esame che è iniziata questa settimana, che ha visto coinvolte 10 commissioni e 89 materie d’esame.

Lorenzo Guasti: Il problema della valutazione è attuale e drammatico. Ho sentito dire di insegnanti che hanno interrogato gli studenti in videoconferenza facendoli prima bendare affinché non leggessero il libro di testo. Non è così che si valuta uno studente. Soprattutto in una situazione di emergenza come questa si deve valutare un percorso continuo fatto di partecipazione alle lezioni, compiti a distanza, relazioni, tesi, interazioni durante le video conferenze ed eventualmente test digitali. Non si può assolutamente pensare di traslare la valutazione classica in un contesto a distanza.

Marco Boella: Questione spinosa. Dal mio punto di vista, la differenza sostanziale è data dal numero di iscritti a un corso: se a seguire le mie lezioni sono iscritti in venti, farei a ciascuno di essi un colloquio orale (via Skype, poniamo), in singolo; si tratta in ogni caso della migliore modalità per la verifica dell’apprendimento, e che avvenga de visu o tramite lo schermo di un computer cambia davvero poco. Chiaramente, con corsi da 200-250 iscritti una cosa del genere non è pensabile, e soluzioni che possano andare bene non ne conosco.

Enrico Bisenzi: Devo dire che all’Accademia Belle Arti di Bologna ho potuto vedere fin da subito l’intera macchina burocratica istituzionale molto attenta ed impegnata a predisporre in tempi rapidissimi la didattica a distanza ed anche per quello che riguarda tesi ed esami c’è stato un intenso lavoro di brainstorming per individuare le corrette procedure di verifica online che ad oggi sembrano aver dato i propri frutti: la possibilità di interrogare in tempo reale lo studente, verificare il suo impegno didattico pregresso e condividere gli elaborati online sono condizioni sufficienti per una serena ed accurata valutazione dell’attività didattica svolta. Auspico in ogni caso un tempo in cui al feedback dei docenti possa essere affiancato il feedback degli studenti sulla qualità della didattica percepita.

@CastigliMirella


BIO degli intervistati, in ordine alfabetico:

Enrico Bisenzi è docente comparto AFAM ed utilizzatore-sperimentatore di servizi telematici di didattica a distanza dai tempi delle BBS (Buletin Board Sytems) fino all’era di Google Meet e Classroom. Per approfondire l’approccio di Enrico Bisenzi in tema di DIDATTICA A DISTANZA si invita a leggere il suo approfondimento sul Blog “Scacco al Web”.

Marco Boella insegna matematica in diverse università milanesi, compresa la facoltà di Ingegneria del Politecnico di Milano.

Lorenzo Guasti è il tecnologo ricercatore dell’Indire che coordina il team che si occupa del progetto “Maker@Scuola”, dedicato alle influenze del fenomeno Makers sulla scuola italiana a partire dai gradi inferiori, compresa la scuola dell’infanzia

Maurizio Lucchini si occupa, da più 35 anni, di sviluppo software e di sicurezza informatica, nonché di docenza di materie legate all’informatica e alle nuove tecnologie digitali, in corsi di livello universitario e parauniversitario. Si occupa anche di addestramento di personale in attività svolte in ambienti ad alto rischio e all’uso di attrezzature di supporto vitale (LSE), nonché di addestramento di personale e di formatori per il primo soccorso e AED e gestione agenti patogeni ematici nelle emergenze.
Preside di Dipartimento all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, è anche coordinatore della Scuola di Nuove Tecnologie e ideatore nonché responsabile, oltre che docente, del Primo Corso di Laurea, in Italia, in Computer Games, organizzato nel settore dell’Alta Formazione.

Maurizio Mazzoneschi è progettista e sviluppatore di applicazioni web e mobili dedicate alla didattica e all’informazione. Formatore, collabora con C.I.R.C.E. con cui tiene dei laboratori di pedagogia hacker. Ha tenuto laboratori e corsi di data Journalism. Interviene alla tavola rotonda rispondendo alle domande 3 e 4, che verranno pubblicate nei prossimi giorni.

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